Ciao, mi chiamo Giada e ho 14 anni.
Sono una ragazzina come tante, che ama gli amici e il sentirsi libera di fare le proprie scelte; inoltre, come il mio papà seguo le orme dell’atletica.
L’unica cosa che forse ci differenzia è la strada che abbiamo deciso di scegliere: lui maratoneta, io invece ho scelto di dedicarmi al salto in alto.
Anche se ho parlato del salto in alto non è questa la storia che voglio raccontare, ma bensì di una che oramai si è conclusa come le favole con la frase “…e vissero tutti felici e contenti…” (per fortuna).
Tutto cominciò la prima domenica di ottobre, quando ho partecipato a una regionale a Vicenza.
Era una pessima giornata e stava quasi per piovere. Sono entrata in pedana e ho saltato: 1,28; e poi altre misure fino ad arrivare ad 1,40.
Non ci potevo credere ero davvero emozionata per quello che era appena accaduto: avevo superato il mio personale di un sacco di centimetri, ma cosa ancora più incredibile ero arrivata 4° ai regionali con un misero o addirittura quasi assente allenamento! Ricordo come se fosse ieri la faccia del mio allenatore: era stupito ma allo stesso tempo sprizzava felicità da tutti i pori. Tornata a casa mi sono presa una brutta influenza e dopo una settimana che ero guarita, la febbre ha di nuovo bussato alla mia porta: questa volta però è arrivata fino a 39,5°, così mio papà date le circostanze e la pessima cera che avevo ha deciso di portarmi al pronto soccorso.
Continuava a ripetermi: “Stai tranquilla ti sarai presa una brutta polmonite!”
In quel momento, male come stavo l’unica cosa che potevo e VOLEVO fare era credergli e augurare a tutta me stessa che papà non si stesse sbagliando.
Ricordo che non riuscivo nemmeno a stare in piedi, ero pallida e mi sentivo uno straccio. Mi hanno fatto analisi e lastre perché come ho detto prima il mio papà pensava avessi una polmonite; invece, quando siamo entrati dal medico di guardia per chiedere cos’avevo ed aveva la faccia molto cupa e pallida come se gli si fosse appena presentato davanti un fantasma. Poi però capii cosa mi dovesse dire, anche forse troppo bene lo capii. Credevamo tutti che fosse un “niente” invece…
Già, forse avrete già capito!
Fa paura a nominarlo ma purtroppo è così che stanno le cose e non si può fare nulla per poterle cambiare. D’altronde noi possiamo vivere la nostra vita fino in fondo ma se il destino ci chiama non possiamo decidere di non rispondere.
In quel momento mi sono sentita crollare il mondo addosso: dopo quello che mi era appena stato detto non avevo più convinzioni e la vita che stavo vivendo non mi sembrava più la mia. Credevo di essere in un incubo e che molto presto mi sarei risvegliata ma non fu così.
Decisero di ricoverarmi e dopo due settimane cominciai le terapie: mi aspettavano 6 mesi di terapia e questo significava solo una cosa: RECLUSIONE, che tradotto voleva dire metà di un anno della mia vita “buttato via”.
Questi mesi furono orribili, tante volte soffrii per gli effetti delle medicine e ricordo che piansi per molto tempo, molte delle volte non c’era un vero motivo; altre volte invece di solitudine, perché quasi tutti gli amici che all’inizio sembravano volermi aiutare nel mio duro cammino, al momento del bisogno se la diedero a gambe come se fossero loro quelli “malati”. Ogni volta cercavo di darmi una risposta per questa loro fuga ma nessuna riusciva a stare in piedi perché lì l’unica che soffrivo ero IO.
Altre persone invece hanno deciso di camminare con me in questo mio percorso in salita e quando cadevo, loro erano lì pronti a rimettermi di nuovo in piedi e per questo voglio ringraziarli con tutto il cuore perché senza di loro non ce l’avrei mai fatta.
Queste persone sono i miei migliori amici, ma anche i miei genitori e le psicologhe dell’ospedale, perché hanno sempre avuto tutti una parola per me quando ne avevo bisogno!
Oppure se non avessi avuto voglia di parlare, si sarebbero limitati ad osservarmi con uno sguardo dolce e comprensivo.
Anche se è stata durissima sono sempre riuscita ad andare avanti perché mi ero data un obiettivo: dovevo farlo non solo per me stessa, ma anche per i miei genitori, perché non potevano perdere una figlia così!
Tante volte mi sono domandata anche perché fosse capitata proprio a me questa sventura e ancora non sono riuscita a darmi una risposta. Ma di una cosa sono sicura: adesso riesco a vivere al meglio le bellezze della vita! Adesso anche andare a casa di un amico o andare a prendere un gelato la trovo la cosa più bella del mondo. Adesso spero di ritornare al più presto l’atleta che ero, anzi forse più forte di prima.
Volevo aggiungere un’ultima cosa: non ho scritto questa storia per fare la vittima di un problema, ma per testimoniare che da questi “imprevisti” della vita si può uscirne vittoriosi. Dicendo questo credo di non essere la sola perché molte persone che conosciamo magari sono state malate e noi non ne sapevamo nulla.
Mi auguro solo che questa testimonianza faccia riflettere molte persone e che finalmente queste riescano a rendersi conto che la vita è una sola e siccome è troppo breve per sprecarla bisogna viverla al meglio.
Giada